Le best practices aiutano?

Scusate l’assenza, ma sembra che il mondo sia ripreso ai primi di settembre.
Torno con una riflessione che prende spunto da alcune esperienze fatte con volontari di piccole organizzazioni non profit che si stanno misurando con attività di fund raising.
Il problema è sempre lo stesso: da dove si comincia a fare fund raising? Dopo la formazione di base, necessaria ed irrinunciabile, dopo aver contattato un consulente che a titolo gratuito o retribuito inizia una collaborazione, arriva il momento di iniziare. E’ su questo punto che vorrei focalizzare questo mio breve intervento: il momento in cui la persona che per l’organizzazione si attiva per fare fund raising abbia la necessaria consapevolezza che lo può fare.
Come spesso accade, a queste persone durante i corsi, o durante le visite nei blog o nei siti delle più importanti organizzaizoni italiane e straniere, vengono presentati i casi di eccellenza, le best practices, i casi di successo, e con ragione spesso si esorta ad imitarli, o quanto meno ad imparare dalle esperienze altrui. A me è successo che a questo punto la reazione sia tutt’altro che scontata.
Vedendo la capacità e la bravura di alcune organizzazione, si innesta nel principiate volontario fundraiser una sorta di sfiducia, declamata con frasi del tipo: “ma noi non siamo all’altezza”, oppure “ bello, ma queste cose le possono fare solo le grandi organizzazioni”, o ancora “non ne sarò mai capace, è troppo complicato, troppo difficile”. Come fare quindi a far crescere la consapevolezza che invece è possibile fare fund raising “bene” anche per organizzazione che hanno strumenti e mezzi limitati?
La mia esperienza mi suggerisce che l’accompagnamento all’attività, anche semplice, ma sistematica, è la risposta. Spesso queste organizzazioni agiscono in territori limitati, dove la relazione fiduciaria, anche personale,  che si crea con il donatore prende il naturale sopravvento rispetto allo strumento di fund raising che si decide di adottare.
Queste persone prendono fiducia, si nutrono della loro stessa attività per accrescere la propria autostima e per coinvolgere in un circuito virtuoso che si autoalimenta, altre persone dell’organizzazione. Ancora una volta il fund raising dimostra che prima di essere “affare di denaro” è “affare di persone” e che solo da loro dipende il risultato positivo o negativo dell’attività.
Il ruolo del fund raising acquisisce un valore in più: non solo professionista capace ed in grado di elaborare strategie e passare conoscenza di tecniche, ma anche persona che riesce a comprendere altre persone, a stimolarle, a guidarle, con obiettività e spirito critico, ma anche con comprensione e pazienza, verso gli obiettivi della stessa ONP.
MINIATURIZZARE IL METODO rendendolo compatibile con le dimensioni dell’organizzazione e sostenibile dalla stessa, senza snaturarlo e senza fargli perdere di significato, senza relegarlo a semplice tecnica sporadica, ma conservando tutte le potenzialità di un sistema di fund raising.
Questa è la sfida per ampliare il numero di organizzazioni nonprofit che attuino un fund raising etico, sistematico, metodologico in grado di sostenere lo sviluppo della propria mission.
Laddove le persone hanno sperimentato il metodo ed hanno verificato che funziona, i risultati sono arrivati, e non solo come quantità di denaro raccolto, ma in termini di cambiamento positivo per tutta l’organizzazione in tutti le sue componenti.
Così il fund raising cresce ed accresce la sua funzione di strumento al servizio del nonprofit e quando questo accade, anche io sento di aver fatto correttamente la mia parte.


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